Riciclare non Rifiutare

Tanto si crea e tantissimo si distrugge. Poco si trasforma: la (in)cultura dell’usa e getta, introdotta ad arte nella gestualità quotidiana per codificare l’esistenza e le persone stesse, sfida le leggi della fisica oltre al buon senso. Applicata al vivere ordinario, la legge della conservazione della massa appare (per l’analogia tra microcosmo e macrocosmo) come un invito a vivere in maniera ecosostenibile.

La cultura del riciclo prova a estendere la proficua modalità d’interscambio animale-ambiente (quello per cui, ad esempio, dal letame nascono i fior) alla catena di produzioni artificiali, risultata negli anni più simile alla celebre catenella dello sciacquone che non a un sistema di scambi tra le persone e i popoli del mondo. Le possibilità di riutilizzo sono infinite, facendo leva sulla ingente quantità di oggetti e sottoprodotti di lavorazione e sull’inesauribile inventiva umana, qualità che proprio il mondo del riciclo sta contribuendo a reinserire in processi produttivi abbondantemente disanimati. Il contributo che ognuno può dare alla causa è sterminato, come ci ricordano i tutorial più disparati e a tratti strambi proposti dai blog: “Fermati, non buttare il fondo del caffè! Facci i funghi o fatti lo scrub”; “Realizza la tua borsa fashion con i tappi della birra”; “Con la buccia delle banane combatti gli afidi” (naturalmente pochi conoscevano questi pidocchietti o sentivano il bisogno di combatterli prima di leggere il suddetto post) …

Cercando sul web la parola “riciclo” o “riciclaggio”, tuttavia, il primo risultato è la voce di wikipedia “riciclaggio dei rifiuti” e l’indicizzazione rappresenta bene aspettative e deficienze della società contemporanea. La prima modalità del riciclo dovrebbe essere, infatti, volta a non produrre tanti scarti, la natura del rifiuto essendo tutt’altro che passiva (benché noi non accettiamo questa attività demiurgica. La rifiutiamo, appunto). La legge, come la parola in sé, riconosce l’esistenza di una scelta che segna il discrimine tra un oggetto d’uso e il suo sollevamento da qualsiasi incarico nella nostra esistenza, definendo rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi».

Soddisfatta quest’intenzione, non rimane che il “riciclaggio dei rifiuti” di cui parla wikipedia, che recupera direttamente le materie prime attraverso procedure più o meno complesse (di discarica non si dovrebbe proprio più parlare). Prima di arrivare a questo, le prospettive di riutilizzo che si presentano storicamente ai nostri occhi sono essenzialmente due: rifunzionalizzazione (ideazione di una diversa utilità per l’oggetto e riparazione) o defunzionalizzazione. Quest’ultima strada è stata ampiamente battuta dall’arte contemporanea che ha pescato nella consuetudine quotidiana nuovi punti di riferimento iconografici (cibi, fumetti, scarpe…). Se particolarmente rappresentativi da questo punto di vista sono gli assemblage di Robert Rauschenberg, per cui si è parlato di junk art (“junk” significa proprio “rifiuto”), il punto di riferimento essenziale per comprendere la questione rimane Marcel Duchamp, inventore del ready-made (oggetto “bell’e fatto”).

Mentre Rauschenberg ha utilizzato la creatura di Duchamp come “strumento di presa diretta sul mondo” (Boatto), in origine il ready-made, nel negare il senso comune delle cose e delle produzioni della società (un pisciatoio diventava una “fontana”), contestava la civiltà occidentale stessa, evidenziandone le smagliature. Quella di Duchamp rimane dunque la più incisiva (e a tratti inquietante) defunzionalizzazione degli oggetti che, capovolti, diventano indice della precarietà della nostra società. In generale, la defunzionalizzazione artistica ha rimosso l’aspetto pratico dell’oggetto sostituendolo con una funzione estetica e concettuale, evidenziando per giunta l’inconsistenza della nozione stessa di arte.

Quest’ultima, infatti, incarna i difetti della civiltà occidentale, che l’ha generata, ancor prima di rappresentarne le virtù. L’arte contemporanea è segnata, come il mondo moderno, da una continua obsolescenza e dal desiderio dell’effimero, producendo feticci deperibili difficili da restaurare e che nessuno, ovviamente, si sognerebbe di riciclare. In questo senso i magazzini dei musei d’arte contemporanea possono avere, talvolta, veramente qualcosa in comune con le discariche.

La rifunzionalizzazione apre prospettive più agevoli nel vivere quotidiano, chiamando in causa una non minore dose di fantasia e creatività. Una vecchia scala a pioli di legno che diventa portasciugamani e un vecchio televisore trasformato in aiuola hanno tutto il gusto di una riappropriazione di spazi propri troppo spesso ridotti a colonie inconsapevoli.

Se poi dovessimo prenderci gusto, ci sono associazioni “Arcarte” con il progetto Spazio Artèteco (www.spazioarteteco.it) che, attraverso concorsi creativi, puntano alla messa in produzione di nuove realtà basate sugli scarti di produzione di altri oggetti, azzerando gli sprechi. Possiamo scegliere cosa riciclare e, oggi più di prima, possiamo scegliere cosa rifiutare.

Alessandro Paolo Lombardo

Regioni

Argomenti