Borgo Mezzanone, l’inverno dei braccianti tra assenza di lavoro, isolamento e malattie croniche
di intersos
La project manager di INTERSOS, Daniela Zitarosa, racconta come si vive e si lavora nei mesi invernali nell’insediamento informale di Borgo Mezzanone. “Una volta scemato il trambusto estivo – spiega – quando pare che le acque si stiano per calmare, tutte le situazioni più torbide finiscono per venire a galla. Le persone presentano un livello di complessità molto più alto”.
L’inverno è arrivato anche qui, nell’ex-pista di Borgo Mezzanone, un luogo che generalmente raggiunge massima visibilità nella stagione estiva a causa dell’aumento esponenziale nel numero dei suoi abitanti, giunti da varie parti d’Italia per trovare impiego, occupazione o sfruttamento nei “fruttiferi” campi della Capitanata. Un luogo che fra la stagione estiva e quella invernale subisce una repentina trasformazione su diversi livelli: quello demografico anzitutto, con il numero dei residenti che si riduce ai soli stanziali, persone che fra queste baracche vivono da parecchi anni; quello climatico che dall’afa asfissiante con 45 gradi estivi passa a temperature rigide vicine allo zero, accompagnate da sferzate di vento violento, l’unico elemento onnipresente nella zona, senza distinzione di stagione.
La trasformazione più rimarchevole però è riflessa nelle attività e nei ritmi propri dell’insediamento: quando cala la richiesta di manodopera e mancano alternative di aggregazione, gli abitanti del ghetto scivolano nei vortici della noia, dei flussi di pensieri, nella disillusione e così la ricerca di anestetici per la mente o altre vie di fuga che cancellino per un attimo questo luogo e questo presente diventano la prassi quotidiana. E così anche l’attività di INTERSOS, con la sua clinica mobile, le sue operatrici e i suoi operatori sociali e con tutti i validi partner che da anni l’accompagnano in pista, cambia aspetto, nonostante i servizi erogati rimangano gli stessi. A cambiare in realtà sono le problematiche che gli utenti portano alla nostra attenzione.
Non si vedono più soltanto volti, mani, gambe e braccia ferite o ustionate, né tagli provocati dagli attrezzi di lavoro e dall’assenza di adeguati sistemi di protezione. Le persone che arrivano alla clinica nel periodo invernale presentano un livello di complessità molto più alto, un’altra faccia del solito sistema disfunzionale che caratterizza questo luogo. Vengono persone con patologie croniche che sono state trascurate, perché nei mesi estivi, quando non ci si può lasciar sfuggire nessuna occasione di portare a casa qualche euro, si finisce con il saltare i pasti, dimenticare di bere e riposare, portare avanti le terapie o semplicemente avere il tempo di andare dal medico per farsi prescrivere dei farmaci. C’è chi poi i farmaci non ha come conservarli, considerato che la maggior parte di questi si denaturano alle alte temperature. Pensiamo a D. per esempio, un giovane con una grave cardiopatia diagnosticata anni fa, che è giunto a noi in sofferenza e respirando a malapena, per poi finire ricoverato in UTIC dove gli sono stati impiantati due bypass e una multiterapia difficile da seguire. Lui, come tanti altri, ha trascorso l’estate a lavorare nei campi nonostante le gravissime condizioni di salute.
Qui in pista, quindi, non funziona l’equazione secondo cui ad una diminuzione dell’utenza corrisponderebbe una più semplice gestione dei bisogni di salute. Anzi, si potrebbe dire che una volta scemato il trambusto estivo, quando pare che le acque si stiano per calmare, tutte le situazioni più torbide finiscono per venire a galla.
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