Cultura come bene comune e come condivisione per un’Europa realmente aperta e inclusiva
Ripartire dalla cultura come bene comune e come condivisione (inclusione): è questo il messaggio forte che arriva dalla mozione per la risoluzione Safeguarding and enhancing Europe’s Intangible Cultural Heritage e dallo stesso progetto #DiCultHer, al cui network aderiscono oltre sessanta organizzazioni culturali italiane, ventisei atenei, istituzioni culturali, Enti di ricerca e imprese.
Un’iniziativa che appare quanto mai significativa proprio in un momento storico come questo, in cui il modello e il progetto di Europa sviluppati mostrano preoccupanti segnali di debolezza e di incertezza, soprattutto dal punto di vista dell’identità e della costruzione di una comunità aperta delle nazioni.
Per troppo tempo si è pensato, erroneamente, che la moneta unica e la creazione di un mercato unico determinassero, in maniera quasi automatica, anche la realizzazione di un modello di integrazione e interdipendenza fondato su una cultura e un’identità che, pur nel rispetto delle specificità e delle differenze, potevano e dovevano essere comuni e condivise. Sappiamo tutti che non è andata così e che è di vitale importanza ripensare le politiche e le strategie europee in una chiave che è quella habermasiana della “politica interna mondiale”.
L’Europa, segnata, da tempo, da una profonda crisi non soltanto economica, inizia a prendere finalmente consapevolezza che la questione è culturale e che bisogna ripartire dal “fattore culturale” per tentare finalmente di costruire un senso di appartenenza ad una comunità aperta e inclusiva che sappia, non soltanto adattarsi, ma gestire la (iper)complessità del cambiamento, le asimmetrie sempre più marcate e i nuovi conflitti, l’evoluzione tecnologica e culturale. In altre parole che sappia gestire, e non soltanto “controllare”, le straordinarie accelerazioni e discontinuità che la società interconnessa e iperconnessa ha reso evidenti.
Occorre ridare senso e significato a quel “progetto” iniziale così importante, ripartendo proprio dalle identità, dalla memoria, dalle culture, da tutto ciò che a livello materiale e immateriale, segna e traccia in maniera indelebile le storie e i vissuti delle persone, delle organizzazioni e delle civiltà; e tutto questo, in un momento particolarmente critico che sembra lasciare poco spazio al dialogo, al confronto, alla contaminazione tra culture e sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo differenti.
“L’iniziativa #DiCultHer e la mozione per la risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa si inquadrano perfettamente in questo tentativo di ripensare/ricostruire un modello di Europa aperta e inclusiva”
L’iniziativa #DiCultHer e la mozione per la risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa si inquadrano perfettamente in questo tentativo di ripensare/ricostruire un modello di Europa aperta e inclusiva, nel quale le identità e le culture si rivelino, non elementi di ancoraggio ad una tradizione sterile che produce chiusure e autoreferenzialità (muri vs. ponti), bensì “strumenti” complessi per affrontare un’evoluzione sociale e culturale senza precedenti, ulteriormente segnata dalla rivoluzione digitale e dalla cosiddetta economia della condivisione. Quella europea, come noto, è una storia molto antica e complessa segnata anche da drammatici conflitti che, tuttavia, non hanno impedito che una certa idea e certi valori si diffondessero e fossero condivisi da persone appartenenti a culture e comunità differenti e, almeno apparentemente, distanti tra loro.
Pertanto, l’idea di preservare, promuovere e condividere il patrimonio culturale intangibile rimette sostanzialmente al centro del “progetto Europa” il cambiamento culturale, il fattore culturale, l’idea di un “nuovo umanesimo” (1996) e di un “rinascimento digitale” – spesso evocati anche in documenti istituzionali – che, per avere qualche possibilità di concretizzarsi, devono incontrare le condizioni culturali e di contesto che modifichino la percezione individuale e collettiva rispetto al valore assoluto della cultura – e non soltanto delle culture digitali (che ne sono parte integrante!) – intesa anche come patrimonio artistico, storico, identitario (storie di vita, memorie, vissuti, immaginari, luoghi, territori etc.) in grado, evidentemente insieme ad adeguate politiche sociali, ripensate in chiave europea e transnazionale, di ri-consolidare quei legami sociali che appaiono sempre più indeboliti dalle “forze” della frammentazione e dal trionfo di valori individualistici. Il valore assoluto della cultura, in tal senso, va ripensato anche rispetto al suo essere “bene comune” e dispositivo fondamentale di coesione sociale, in una fase storica che ci richiede urgentemente di ripensare le condizioni strutturali del “contratto sociale”, del nostro vivere insieme.
“Il valore assoluto della cultura va ripensato anche rispetto al suo essere «bene comune» e dispositivo fondamentale di coesione sociale”
Un progetto d’Europa che, in altri termini, si spera possa portare con sé l’ambizione di rimettere finalmente le Persone (e i mondi della vita), e non la tecnica, il mercato o il consumo, “al centro” di un modello di sviluppo, che fino ad ora ha palesato tutte le sue criticità e incongruenze. L’auspicio sentito è che lo si faccia davvero, al di là di slogan e di campagne di comunicazione più o meno riuscite, e che iniziative come la presente possano configurarsi concretamente come “leve” attive del cambiamento più urgente e necessario, quello sociale e culturale. Affinché ciò possa avvenire, servono politiche condivise e progettate in una prospettiva sistemica, all’interno delle quali scuola e università devono rivestire un ruolo ed una funzione assolutamente strategiche: non è più possibile, in tal senso, progettare e realizzare azioni e strategie di innovazione e cambiamento che non riconoscano esplicitamente, nei fatti, la centralità strategica delle istituzioni educative e formative, peraltro responsabili dei processi di stratificazione sociale e mobilità sociale. E questo perché – bene esser chiari – stiamo ragionando intorno a questioni di vitale importanza per la tenuta e la stessa sopravvivenza dei regimi democratici. Non è inutile ribadire – e lo facciamo spesso – che cittadinanza, inclusione e innovazione non possono essere “per pochi”.
Preservare, promuovere e condividere il patrimonio culturale intangibile per riaffermare la ricchezza, la varietà e la molteplicità delle culture e dei “paesaggi sociali e culturali” europei nello sforzo – forse, nell’utopia – di realizzare/edificare davvero uno spazio pubblico, sociale e comunicativo, in grado di riaffermare con chiarezza il valore dell’essere Persone, il valore dell’essere Cittadini, il valore di essere e far parte di quell’importante visione che si chiama Europa: un progetto, in primo luogo, politico e (prima ancora) culturale che ha perso colpi e credibilità – non soltanto a livello di percezione, individuale e collettiva, e di rappresentazione mediatica – sotto le spinte di un capitalismo finanziario e di un “modello” di globalizzazione che ha reso ancor più evidenti disuguaglianze e asimmetrie, a livello locale e globale. Preservare, promuovere e condividere il patrimonio culturale intangibile – con tutte le possibili accezioni anche legate ai concetti complessi di “cultura” e “beni culturali” – , a maggior ragione, in un momento di transizione problematica che si sostanzia anche, e soprattutto, in una crisi culturale e di civiltà.
In tal senso – non è inutile ribadirlo – manca tuttora un progetto comune e condiviso di Europa, continua a mancare una visione di lungo periodo rispetto al destino di un’idea di fondamentale importanza che non può non basarsi su identità, memoria, culture, vissuti, paesaggi sociali e culturali che, pur nella loro diversità e tipicità, riaffermino una sistema di valori comune e condiviso. Una cultura aperta alle contaminazioni per IDENTITÀ e COMUNITÀ che, nonostante tutto, intendono essere aperte e inclusive.
La costruzione dello Spazio Europeo della Cultura, anche in vista dell’Anno Europeo dedicato alla Cultura (2018), richiede elevati livelli di conoscenza, nuovi profili e competenze, saperi condivisi (2003), organizzazioni e sistemi sociali aperti, nuove culture organizzative e della comunicazione, comunità inclusive e aperte al dialogo; diventano così ancor più strategiche istruzione ed educazione che devono essere ripensate per le sfide dell’ipercomplessità, andando oltre quelle che ho definito, in passato, le “false dicotomie”: formazione umanistica vs. formazione scientifica; teoria vs. ricerca/pratica; complessità vs. iperspecializzazione dei saperi; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills etc. Di conseguenza, le azioni e le strategie necessarie vanno portate avanti su più piani e, come detto, in prospettiva sistemica affinché la cultura e la condivisione della conoscenza possano configurarsi davvero come leve strategiche per co-costruire comunità inclusive e aperte al dialogo che sappiano anche reagire alla paura e alle politiche della paura; che sappiano reagire alle dinamiche scaturite da un mercato – preda della sua auto-normatività – e da un’economia globale della precarietà (cit.).
Da questo punto di vista, innescare il cambiamento e gestire la complessità dei processi di innovazione significa, in primo luogo, ripensare la nostra Scuola e la nostra Università, tuttora ingabbiate dentro “logiche di separazione” che sono logiche di controllo e di reclusione dei saperi negli stretti confini di discipline isolate tra loro. Questioni e variabili strutturali che, se non corrette, sono destinate a mantenerci in una condizione di perenne ritardo culturale rispetto alle accelerazioni indotte dall’innovazione tecnologica: peraltro, ciò contribuisce a rafforzare la percezione e la credenza diffusa di una “doppia velocità” di tecnologia e cultura, come se la tecnica e le tecnologie fossero un qualcosa di esterno alla cultura ed ai contesti storico-culturali che le hanno prodotte e sviluppate. Servono investimenti importanti in cultura, in educazione e istruzione all’interno di politiche di rilancio degli studi umanistici e della formazione umanistica, per troppo tempo considerati non importanti perché non in grado di produrre (almeno, apparentemente…) effetti/risultati “misurabili” in termini quantitativi.
Come scrissi anni fa, dobbiamo lavorare, a tutti i livelli (da quello individuale a quello sistemico), per ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico anche, e soprattutto, perché siamo di fronte alle sfide di un cambiamento (anche di paradigma) che, storicamente, non può essere imposto dall’alto ma che, al contrario, va costruito ed elaborato socialmente e (appunto) culturalmente.
Piero Dominici è docente universitario e formatore professionista