Sud: accontentarsi o re-esistere?

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Se si analizzano i dati socio-economici sul Sud o, più semplicemente, se si vive la quotidianità, accade il prevedibile: ci assale lo scoramento per tutto ciò che non funziona e per le carenze di opportunità ma, a volte, è invece l’imprevedibile che finisce per travolgerci. Chi resta, chi rimane al Sud, sceglie se il suo è un rimanere per “accontentarsi” o un rimanere per “re-esistere”. 

di Giuseppe La Rocca

La narrazione e le statistiche degli ultimi anni riguardo al Sud ci hanno abituato quasi all’indifferenza difronte alla retorica di una terra bellissima ma destinata allo spopolamento, meravigliosa per le vacanze estive ma difficile da vivere nel quotidiano. Non c’è lavoro, non ci sono investimenti, non ci sono opportunità.
In effetti, se ancora ce ne fosse bisogno, l’indagine Svimez 2019 ha evidenziato i nuovi temi dell’antica questione meridionale:

  • stagnazione demografica (bassa natalità, invecchiamento della popolazione, emigrazione dei giovani con elevati livelli di istruzione, molti dei quali non tornano più);
  • inefficienza della classe dirigente (la maggior parte delle risorse europee da certificare sono concentrate soprattutto in Sicilia, i pagamenti al Sud sono stati finora pari ad appena il 19,78% del totale della programmazione in corso);
  • divario territoriale nei servizi pubblici, a partire dalla sanità e dalla scuola (la spesa pro capite delle amministrazioni pubbliche è pari nel 2017 a 11.309 nel Mezzogiorno e a 14.168 nel Centro-Nord e continua senza sosta l’emigrazione ospedaliera verso le regioni del Centro-Nord).

Quando si analizzano questi dati o più semplicemente si vive la quotidianità, accade il prevedibile: ci si lascia assalire dallo scoramento e dalla paura ma.
Il prevedibile è tutto ciò che appartiene a quella cerchia di domande che fanno scaturire senza difficoltà un moto di rabbia – se così si può dire – di fronte a tutto ciò che al nord c’è e che qui manca, di fronte a tutto ciò che al nord funziona e che qui neanche è partito, di fronte a tutto ciò che al nord va veloce e che qui sembra fermo da troppo tempo.

È una rabbia che, bisogna riconoscere con un po’ di onestà, lascia il tempo che trova e che non porta da nessuna parte. Il tema delle disuguaglianze va depurato dalle scorie rivendicazioniste provenienti da Nord e da Sud e riportato sui temi nazionali della qualità delle politiche di offerta dei servizi pubblici e delle politiche necessarie per la ripresa della crescita, sulla spesa infrastrutturale, sulla qualità della classe dirigente e sulla co-responsabilità delle comunità nello sviluppo locale.

Questo è il prevedibile – appunto – ma io credo con molta più forza in quell’imprevedibile che nasce solo e soltanto nel momento in cui la paura lascia il posto al coraggio. Allora l’imprevedibile – appunto – accade e, con una chiarezza oserei dire quasi disarmante, si fa limpida una verità dai contorni agrodolci: questa terra non ha meno di altre parti del Paese e non funziona più lentamente, questa terra ha tutte le sue energie rubate da un moto a cui ogni giorno deve tenere testa: è il moto del “partire” davanti al quale il moto del “rimanere” è ormai in affanno. È una lotta che spesso toglie il respiro e ruba la speranza. Eppure – appunto – accade l’imprevedibile qui, in questa terra che ti provoca, ti affascina, ti innamora e ti ferisce.

Sì perché se il “partire” resta spesso una scelta obbligata, il “rimanere” spalanca due possibilità. Chi resta, chi rimane, sceglie se il suo è un rimanere per “accontentarsi” o un rimanere per “re-esistere”.

Nel primo caso va benissimo lamentarsi e abituarsi alla logica perversa dei rifiuti in ogni dove (anche nei pertugi di case abbandonate in pieno centro storico); va benissimo lamentarsi e abituarsi alle case esternamente mai finite e interamente spesso luccicanti di oro; va benissimo lamentarsi e abituarsi ai marciapiedi sconnessi che spesso imprigionano dentro alle case chi ha ormai il passo incerto o cammina sorretto da quattro ruote.

Nel secondo caso l’imprevedibile – appunto – assume i connotati di una sfida folle eppure così umana e inevitabile: rimanere per re-esistere. Per esistere con uno stile che non può che aprirsi al generare.
È un resistere nel quale la posta in gioco è l’innescare processi che non possono scendere a compromessi con il lamentarsi né tanto meno con l’accontentarsi.
È un re-esistere non ripiegato in sé stesso che deve dare un nome preciso alle cose per poterle chiamare presto con nome nuovo.
È un re-esistere che ha a cuore il bene comune, i piccoli gesti di cura che devono partire inevitabilmente e inesorabilmente da sé stessi per raggiungere così la comunità.
È un re-esistere che ha bisogno di tutti: di chi ha deciso di rimanere, di chi è stato costretto ad andar via, di chi guarda a questi luoghi con attenzione e fascino. Un’alleanza tra uomini e donne perché la differenza la fanno sempre e solo le persone.
È un re-esistere che ci permetterà d’invertire, nel nostro piccolo, il paradigma di un Sud inerme e destinato al fallimento, creando valore per lo sviluppo locale e avviando processi di coesione sociale.

È un re-esistere che s’impegna a generare il bene comune, con una pazienza e una dedizione tanto necessarie agli uomini e alle donne di speranza, quanto a un agricoltore che si prende cura di un albero di ulivo appena piantato sognando già quello che potrà essere tra molti anni.

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