“Servono i segni”: a colloquio con suor Emanuela
Suor Emanuela Simoes guida con fermezza il Centro d’ascolto degli Scalabriniani a Reggio Calabria: la realtà è entrata a far parte della rete territoriale dell’accoglienza, nell’ambito del progetto Ampliacasa.
«Noi non possiamo risolvere tutti i problemi». Suor Emanuela Simoes, che con fermezza guida il Centro d’ascolto degli Scalabriniani, che ha sede nella parrocchia di Sant’Agostino a Reggio Calabria, parla chiaro. Ed è per questo che il Centro ha deciso di entrare nella rete territoriale per l’accoglienza che Acisjf Fata Morgana sta costruendo all’interno del progetto Ampliacasa.
«Immigrati, richiedenti asilo, rifugiati… noi accogliamo tutti. Questo è un Centro che la diocesi ha istituito più di vent’anni fa per l’accoglienza e l’accompagnamento dei migranti. Allora c’era una comunità di filippini: è stata la prima comunità straniera ad insediarsi qui. Poi sono arrivati africani, persone dell’Est e così via…».
Si tratta soprattutto di un luogo di ascolto, che offre in più alcuni servizi di base, tra cui la distribuzione di vestiti e generi alimentari. «A seconda del bisogno che esprimono, indirizziamo le persone verso le realtà da cui possono avere risposte e le aiutiamo a risolvere alcuni problemi. Vorremmo fare di più, ma non abbiamo locali idonei», spiega Suor Manuela. La parrocchia, infatti, ha bisogno dei locali per le normali attività pastorali, perciò le attività di accoglienza sono compresse nelle ore mattutine, per lasciare liberi i locali nel pomeriggio. Per questo Suor Manuela sta cercando qualche stabile confiscato alla mafia, ma si è scontrata con il fatto che «è molto difficile ottenerli».
Anche se si vorrebbe fare di più, le attività sono comunque tante e coinvolgono grandi numeri, grazie a 20-25 volontari, all’aiuto di un gruppo scout, a quello del gruppo che riunisce gli anziani della parrocchia, alla collaborazione del consultorio familiare e soprattutto con la Caritas diocesana.
«Noi riceviamo tutti – sottolinea Suor Manuela – anche la popolazione Rom, che è numerosa e a volte costituisce un problema per i centri di ascolto. Sono almeno duecento le famiglie che seguiamo regolarmente, e abbiamo circa 2000 “passaggi” all’anno (cioè persone che vengono qui e poi sono indirizzate ad altre strutture oppure partono per il Nord)».
Vero fiore all’occhiello del Centro è il servizio che segue le pratiche burocratiche: «È uno dei servizi più richiesti ed efficienti. Molti immigrati sono analfabeti, e non riescono neanche a leggere le sentenze del tribunale. E comunque per loro seguire una pratica per il permesso di soggiorno o più semplicemente per la residenza è molto difficile».
Il Centro propone anche corsi di italiano e supporto nella ricerca di un lavoro. «Ce lo chiedono soprattutto le donne dell’Est – georgiane, ucraine, romene – e anche le tunisine», racconta, «meno le marocchine: vengono dalla parte più povera del Pase, dove il modello familiare prevalente prevede che la donna si occupi della prole, della casa, del marito. Abbiamo avuto anche il caso di una giovane donna, sposata ad un uomo più vecchio, che non usciva mai».
E poi c’è il problema di chi esce dal circuito ufficiale dell’accoglienza: «Ultimamente ci sono arrivate molte coppie giovani della Nigeria, o da altri Paesi africani. Sono persone approdate con gli sbarchi, a volte hanno bambini piccoli e sono uscite dal circuito degli SPRAR e dei centri di accoglienza, perché volevano stare insieme – nei centri di accoglienza uomini e donne sono divisi –. Perciò sono uscite per potersi incontrare, ma se esci senza permesso non puoi più rientrare e sei fuori da tutti i circuiti di aiuto e protezione».
In questi casi c’è bisogno anche di soluzioni abitative, difficili da trovare, proprio perché si tratta di coppie, nuclei familiari che non vogliono dividersi, mentre le comunità, i dormitori, le strutture sul territorio sono o per uomini o per donne.
Dunque, servono locali per i servizi (distribuzione vestiti), per i corsi di italiano, e anche per gli eventi che ogni tanto si fanno per aggregare. E servono case per gli immigrati, ed è questo il problema più grande.
Il motivo per cui il Centro ha deciso di entrare nel progetto Ampliacasa, partecipando alla costruzione di una rete territoriale è duplice: «Ci interessa partecipare all’avviarsi di una nuova progettualità. E soprattutto ci interessa impostare un serio lavoro di rete, che oggi non esiste. Bisogna mettere insieme competenze e risorse. Bisogna creare sinergie. Ci vuole scambio: noi siamo un’eccellenza nel campo delle pratiche burocratiche? Qualcuno lo è in altri campi… mettiamoci insieme!».
Solo a questa condizione – che si faccia rete e che si ragioni in termini di progettualità – si potranno trovare risposte nuove ai bisogni delle persone. Una risposta potrebbe essere il cohousing? Forse: «Potrebbe diventarlo, se ci fosse un cambio di mentalità. Ci vorrebbero buone pratiche su cui ragionare: come in tutti i campi, ci vogliono i segni».
Paola Springhetti