“Adesso non ho più paura, adesso so che sarò libera”: l’amore malato di Nadia

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“Puttana, io non ti basto?”

Comincia così il calvario di Nadia (nome di fantasia): da quella che sembra una gelosia esagerata e che, presto, si trasforma in violenza. Verbale e fisica. È la prima volta, non sarà l’ultima. “Da quel giorno – racconta in una lunga lettera – una parte di me morì”.

Lo scrive durante la sua permanenza nella Casa di Abraham e Sara, quando è ormai al sicuro, non molti mesi fa. In una delle strutture della Fondazione Siniscalco Ceci-Emmaus che accolgono le richieste di accoglienza provenienti dai Centri Antiviolenza, dalle Forze dell’ordine e dai Servizi Sociali, principalmente per donne e madri con bambini a seguito di denunce per violenze subite. Una delle strutture interessate anche dal progetto Abitare le Relazioni, sostenuto da Fondazione con il Sud.

Come tante donne vittime di violenza, anche Nadia ha avuto a che fare con un amore malato – “ero cieca e stupida”. La sua storia ripercorre gli errori di tante ragazze fragili: su pressione dell’uomo che dice di amarla si allontana dagli amici, dalla sua famiglia, da tutti. Si isola. In seguito, va a vivere con lui e, nel giro di alcuni anni, resta incinta di una bambina. Quando nasce, Nadia spera che le cose cambino ma non è così, peggiorano. L’uomo beve, si droga, è violento. Pretende di avere rapporti sessuali anche contro la sua volontà, persino a poche ore dalla nascita della secondogenita, quando Nadia è ancora convalescente, facendo valere la sua forza bruta e giocando sulla paura della donna. “Ero diventata un contenitore di insulti e sperma – scrive Nadia di quel periodo – un oggetto inanimato”.

Gli anni che seguono sono un inferno: tentativi di separazione, di venirne fuori, di liberarsi di lui. Ma i figli rendono Nadia vulnerabile: “Questa è casa mia – le dice un giorno – e tu stai qua con me altrimenti ti faccio a pezzi e ti butto in un sacco come spazzatura”. E ancora: “Preferisco saperti morta e non separata da me!” E ancora: “Allora non hai capito che tu sei mia?!” E ancora: “Io ammazzo te e i tuoi figli, anzi prima i tuoi figli di fronte a te, e poi te!”

Un giorno l’ultimogenito di Nadia cerca di difendere la madre dalla furia di quello che dovrebbe essere suo padre, impugnando un coltello, ponendosi tra i due adulti, mettendo a repentaglio la sua vita. Sarà la goccia, per Nadia, la goccia che la porterà finalmente a produrre prove e documentazioni per ottenere l’allontanamento, la denuncia, la protezione.

“È passato un anno da quando sono in questa struttura, non ancora ho avuto la possibilità di trovare un lavoro e rifarmi una vita con i miei figli, la vita che meritiamo. Siamo tutti divisi ma adesso so che c’è speranza. Ho ottenuto la separazione e sono in attesa del processo”. Questo Nadia lo scriverà dalla Casa di Abrahm e Sara, successivamente. “Adesso non ho più paura – si legge nelle ultime righe – adesso so che sarò libera”.

Ed è così. Nadia oggi sta bene, ha lasciato la struttura che le ha dato ospitalità, assistenza, protezione e accompagnamento. È altrove, vive la sua vita, finalmente. E così la sua famiglia.

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